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Servizi digitali “gratuiti” e dati personali: i chiarimenti del Comitato IVA UE

01 December 2025

Il Comitato IVA UE, attraverso il Working Paper n. 1118/2025, ha risposto ai quesiti dell’Italia sulla qualificazione ai fini IVA dei servizi IT offerti agli utenti senza un corrispettivo monetario, ma in cambio dei loro dati personali.

Il documento mette in luce un aspetto fondamentale: la presenza di un “collegamento diretto” tra la quantità/qualità dei dati forniti e il livello del servizio ricevuto può trasformare la prestazione in una vera e propria “permuta digitale”. Da sottolineare che non è il primo posizionamento del Comitato sul tema (cfr. Working paper n. 958 del 30 ottobre 2018)

I tre scenari individuati dal Comitato IVA sono così schematizzabili.

  • Servizi senza possibilità di modifica privacy: qualora l’utente non possa intervenire sulle impostazioni dei dati, mancherà il nesso diretto tra servizio e dati. In questo caso, di norma, non si configura un’operazione imponibile ai fini IVA.
  • Servizi ridotti se l’utente limita i dati: qualora limitando i dati il servizio si riduce, il collegamento diretto è presente e può configurarsi una prestazione imponibile. Tuttavia, il Comitato segnala la complessità nel determinare la base imponibile, data la difficoltà di valorizzare il “corrispettivo in dati”.
  • Servizi a pagamento: in tali casi, ad opinione del Comitato, la prestazione è imponibile.

Recenti casi giurisprudenziali domestici hanno già affrontato queste tematiche relative all’utilizzo dei dati personali come corrispettivo, rectius moneta di scambio, per accedere a servizi digitali. Le autorità italiane hanno notificato avvisi di accertamento per l’omessa dichiarazione e il mancato versamento dell’IVA, contestando che la cessione dei dati personali, in assenza di un corrispettivo monetario, costituisca una prestazione di servizi imponibile ai fini IVA. Secondo l’Agenzia delle Entrate, si tratterebbe di un pagamento in natura, assimilabile a una “permuta di beni differenti”, con conseguenze rilevanti sia sulla qualificazione dell’operazione sia sulla determinazione della base imponibile.

Da sempre, la normativa e la giurisprudenza italiana attribuiscono grande rilevanza al vincolo di sinallagmaticità: il rapporto di interdipendenza tra le prestazioni scambiate, anche in presenza di un disallineamento di valore, mantiene la natura permutativa del contratto. In tale contesto, la base imponibile ai sensi degli artt. 13 e 14 del D.P.R. 633/72 è costituita dal valore normale dei beni o servizi scambiati, ossia l’importo che sarebbe stato pagato in condizioni di libera concorrenza. Anche il Consiglio di Stato (cfr. Sent. n. 2631/2021) ha riconosciuto la patrimonializzazione dei dati personali pur senza il pagamento monetario. la Corte di Giustizia UE ha stabilito che il corrispettivo in natura deve essere suscettibile di valutazione economica, o, in mancanza, si assume il costo sostenuto dal prestatore per erogare il servizio gratuitamente (cfr. Sentenza C-549/11).

Questo implica che, mentre in Italia le autorità fiscali hanno interpretato l’operazione come imponibile, a livello europeo il dibattito resta aperto. La posizione del Comitato IVA suggerisce che la questione non possa essere risolta solo attraverso l’interpretazione nazionale, ma richieda una riflessione armonizzata a livello UE per garantire certezza e uniformità di trattamento.

Alla luce di ciò, le vicende italiane rappresentano un precedente rilevante, ma anche un punto di partenza per un confronto europeo più ampio, in cui il ruolo dei dati personali come possibile “corrispettivo” è oggetto di valutazioni ancora in fase di definizione. Una eventuale azione giudiziaria potrebbe quindi coinvolgere le corti europee, con impatti non solo fiscali ma anche strategici per le politiche di regolazione digitale. È ragionevolmente certo che una mappatura delle configurazioni ai fini privacy e conseguente valorizzazione sarà oggetto di definizione nella contrattualistica degli operatori.

Dal punto di vista dell'interessato al trattamento dei dati (ossia del soggetto cui i dati personali si riferiscono) si aprono oggi nuovi scenari ancor più interessanti.

Se accettiamo l’idea che i dati personali abbiano un vero valore economico e che questo valore possa incidere sul tipo di rapporto che si crea tra utente e fornitore di servizi, allora cambia anche il ruolo della persona che quei dati li fornisce. L’utente non è più una figura passiva che “cede informazioni” quasi senza accorgersene, ma può pretendere di sapere quali dati servono davvero per far funzionare il servizio e quali, invece, vengono richiesti come una sorta di prezzo alternativo. In altre parole, può chiedere trasparenza autentica: capire cosa è indispensabile e cosa no, e scegliere di conseguenza.

Cambia quindi il paradigma: sarà ancora sufficiente come base il consenso?

L’interessato, infatti, potrà rivendicare con più forza il diritto a servizi che non lo penalizzino solo perché decide di condividere meno dati. Può chiedere limiti chiari alle finalità ulteriori, un reale rispetto del principio di minimizzazione, e versioni del servizio che restino accessibili senza dover “pagare” con informazioni superflue. È probabile che tutto ciò spinga i fornitori a riscrivere i propri contratti e a spiegare in modo molto più trasparente quanto valgono i dati degli utenti e come incidono sul servizio offerto. Per gli utenti può diventare una vera occasione: riconoscere che i propri dati hanno un valore e usarlo per prendere decisioni più libere, consapevoli e davvero informate.

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